di storia
di Rovereto
Cento anni fa centomila trentini, poco meno di un terzo della popolazione, venivano forzosamente allontanati dai loro paesi, dalle loro case, e “scarmigliati” in mezza Europa, dalla Sicilia alla Boemia. Si trovarono così a far parte di quel popolo che nel 1915 già contava centinaia di migliaia di “spostati”, ma che a fine guerra ne conterà circa 17 milioni. In questo primo volume i profughi trentini si raccontano attraverso le loro fotografie e i loro scritti.
Tutti vittime di una lotta fratricida che per la prima volta aveva abolito ogni separazione fra militari e civili e aveva introdotto nel lessico comune parole che non spariranno più, assumendo anzi, nel corso del Novecento, ben altra sostanza: guerra totale, deportazione, apolidismo, concentrazione territoriale, militarizzazione sociale, annientamento, campi di concentramento, sistema baracche. Fra il 1939 e il 1945 le “displaced persons” (“i civili che si trovano fuori dai confini del proprio paese per motivi legati alla guerra”) furono in Europa all'incirca 50 milioni (il 10% dell'intera popolazione), oggi nel mondo se ne contano quasi settanta.
Quando si parla di profughi trentini è bene non dimenticare mai questo vasto e crudele scenario, dentro il quale per tre anni (ma potevano essere trenta o trecento o tremila) furono costretti a muoversi e a vivere, “trattati – ebbe a dire Alcide De Gasperi al parlamento austriaco – non come cittadini, bensì, più o meno bene a seconda del modo di vedere e del punto di vista individuale, come oggetti da amministrare. Evacuati, istradati, perlustrati, approvvigionati, accasermati, come se non avessero alcuna volontà propria, come se non avessero alcun diritto”.
Finita la guerra, rientrati alle loro case, lasciati i loro morti in terra straniera, non era tempo per i profughi di raccontare e ricordare; e tanto meno lo era per gli apparati della celebrazione nazionale; e gli storici si occuparono d'altro, di vicende più eroiche e gloriose. Così quell'esperienza s'inabissò carsicamente, ricominciando a riemergere soltanto nei primi anni Ottanta del secolo scorso. Per farlo ebbe bisogno di un soggetto collettivo che sapesse insinuarsi in quella falda sotterranea, scoprire memorie e scritture e immagini dormienti lì da allora: un gruppo di studenti ricercatori dei Corsi statali sperimentali per lavoratori di Rovereto. Ne sortì La città di legno (1981), che inaugurò una feconda stagione di ricerca sia sul tema che sulla metodologia da utilizzare per accedere a esperienze collettive di quel genere, riordinarle storiograficamente, restituirle alla comunità di provenienza sotto forma di “grande racconto” (il libro divenne anche mostra che passò di valle in valle, di comune in comune sotto l'egida della Provincia). Alla fine di quel decennio, l'eredità passò al Laboratorio di storia di Rovereto, che dai Corsi per lavoratori assunse motivazioni e stili di lavoro. Nel 1998 uscì La città mondo, dov'era raccontata l'esperienza di Rovereto e dei roveretani durante la prima guerra mondiale con l'utilizzo della fotografia e delle scritture dei soggetti che l'attraversarono e ne furono attraversati. Poi fu la volta de Il popolo scomparso (2005), che allargava lo sguardo al Trentino e ai trentini: quel volume (oggi introvabile) ebbe il merito di mostrare per la prima volta qualche immagine dei profughi in Italia, di cui sembrava non essere rimasta traccia. Era un modo per cominciare a restituire a tutti, indistintamente, il loro posto in quella storia. I tempi erano quasi maturi, bastava aspettare: aspettare che dal Laboratorio uscissero opere più complesse e consapevoli, quantomeno nell'uso delle fonti e nelle finalità della ricerca, come Il diradarsi dell'oscurità (2011) e Almeno i nomi (2013). Ancora una volta al gruppo roveretano (“Uomini e Donne di buona volontà prestati alla Storia”), posto al centro di una rete vasta e capillare di ricercatori, collaboratori e prestatori - come il sottotitolo suggerisce e gli elenchi certificano -, toccò il compito di alimentare la ricerca, raccogliere la documentazione, predisporne l'ordinamento, lo studio; curare la redazione del primo dei due volumi di cui è fatta l'opera (Fotografarsi. Scriversi); assicurare uno stretto sodalizio con Paolo Malni, l'autore del secondo volume (La storia).
Gli spostati si propone di ridare voce e corpo, dunque visibilità e storicità , all'esperienza dei profughi trentini, affiancando sguardi assai diversi e per ciò stesso complementari: quello contemporaneo di un narratore interno (i profughi) a quello retrospettivo di un esterno (lo storico); e per la prima volta considerandola nella sua infrangibile totalità : l'esilio di altri (i galiziani); l'esilio nell'impero austro-ungarico e nel regno italiano; l'esilio vicino e lontano; la diaspora e il concentramento nei campi.Â
Il primo volume, Fotografarsi. Scriversi, si presenta come un vero e proprio “atlante di conoscenza”, fatto com'è di autoritratti fotografici e di scritture autobiografiche; teso com'è a ripristinare il legame naturale fra immagine e parola, fra queste e la Storia, che avrebbe potuto cancellarle. Nasce dalla nostra volontà di ricollocare ognuna di quelle impronte nello spazio e nel tempo in cui si originarono e nella memoria collettiva di oggi, ma, ancor più, nella volontà di chi le originò: donne, soprattutto, che furono separate dai loro uomini, dai loro luoghi abituali, dai loro animali, dalle loro piante; e che lasciarono sulla pagina e sulla lastra il segno della loro resistenza alle offese della guerra, della loro stessa esistenza. Un atto comunicativo, un atto di giustizia e redenzione, un atto di memoria. Mai prima di allora la fotografia aveva assunto un compito così delicato ed essenziale; mai aveva perseguito una simile vastità d'intenti e d'usi; conseguito numeri così imponenti, una diffusione così sconfinata.
Quante volte si legge sui diari, sulle lettere di mano femminile la volontà caparbia di avere una testimonianza fotografica di come si è in esilio per mandarla al padre-marito al fronte o ai congiunti separati dalla fuga; e di riceverne il corrispettivo. Quante volte si riafferma il valore compensativo, sostitutivo e consolatorio di un ritratto; e quanta fatica spesso nell'ottenere questo: “Povero Marito mio – scrive una profuga – volio proprio consolarti e mandarti la nostra fotocrafia ma qui sempre piove non si può mai andare poi devo conprare un vestito per Vittorio che non ne a e se ti mando la fotocrafia che vedi i tuoi fili lacerati certo piangi e pensi che non o più cura perché tu sei lontano non li vedi ma in vece è tuttaltro ebene un giorno andro presto si volio farti una inprovisata”. E, ciononostante, la penuria di cibo e di vestiti, la mancanza di scarpe, la tristezza, la derelizione, s'imprimono su quelle lastre. Scrisse Ando Gilardi nell'introduzione a Il popolo scomparso che fra i diecimila volti presenti in quel libro non ce n'era uno che sorridesse, solo un cagnolino ritratto in una foto di gruppo nel campo di Mitterndorf accennava a farlo...
Eppure, dietro l'atto di fotografarsi, si avvertono la grande dignità (non di rado la fierezza) del fotografato, la consapevolezza che solo così si sarebbe lasciata traccia del proprio passaggio su quella terra straniera, un'impronta di memoria, un graffito sulla parete del tempo. In un caso, forse unico nella storia degli uomini del 900, c'è addirittura un intero paese che si fa ritrarre: è Condino, disperso in Piemonte, di cui ci rimangono i ritratti di quasi tutti gli abitanti (I condinesi), in luoghi, fogge e pose diversi, ma quasi che il tutto dovesse alfine ricomporsi per l'inverosimile regia di un demiurgo. Non c'è forse in quegli atti fotografici, in quei visi, in quelle pose, l'anticipo inconsapevole del progetto di ritrattistica sociale del grande fotografo tedesco August Sander, soldato in guerra e autore dai primi anni Venti dell'opera antologica sugli Uomini del 20° secolo?
Anche in questo libro ce ne saranno diecimila di volti, ma è come se ci fossero tutti i centomila: dietro un singolo, ce n'è un altro, e un altro ancora; dietro un gruppo un altro e un altro ancora. Ecco perché li abbiamo resi anonimi, per far sì che siano intercambiabili, ognuno a rappresentarli tutti; chi guarderà questo libro da trentino ritroverà il proprio padre e la propria madre, e il padre del padre e la madre della madre: reinseriti nel contesto di quell'esperienza - fosse il campo di Braunau o di Mitterndorf, l'Austria o l'Italia; il sud o il nord, l'est o l'ovest; la città o il paese; la fabbrica o la campagna; la scuola o la piazza -, restituiti comunque alla memoria collettiva.
Il libro è il frutto maturo della lettura e della progressiva selezione di quell'immenso giacimento di immagini e scritture che lo “stato d'eccezione” in cui si erano trovati i profughi, aveva depositato negli archivi pubblici e, soprattutto, familiari. L'organizzazione dei documenti selezionati ha l'impianto, e il ritmo quasi, del montaggio cinematografico: molto stratificata - per temi e sottotemi, per cronologia, per tipologie (nel caso dei ritratti), per universi (nel caso dei due campi e dei Condinesi), permette al lettore di percorrerla con  assoluta discrezionalità ; ogni capitolo è costituito dalla sequenza fotografica e dall'antologia dei testi scritti: dentro quest'ultima si insinuano, ulteriore prova della forza di permanenza dell'Immagine rispetto al Tempo e alla Storia, particolari di volti, di corpi, di abbigliamenti.
Il secondo volume, La Storia, accoglie il saggio di Paolo Malni, storico goriziano che sempre si è occupato di profughi e da un po' di anni studia l'esperienza dei trentini. Da tempo si aspettava che qualcuno riprendesse il filo del racconto così com'era stato lasciato da La città di legno, allargandone gli orizzonti e includendo fra i protagonisti anche i profughi in Italia. Finalmente l'utilizzo di nuove e più probanti fonti, l'intreccio sempre più stretto fra dati soggettivi e oggettivi (quelli degli amministrati e quelli degli amministratori), l'avanzamento della ricerca sia da parte italiana che da parte austriaca, la metodologia collettiva, hanno permesso di ricreare un quadro complessivo che si avvicina al definitivo.
Ognuno dei due volumi ha una sua autonomia, ma l'intreccio fra l'uno e l'altro, fra l'affettivo e l'effettivo (in altre parole, la restituzione delle immagini e delle scritture a un contesto di esperienza, ma altresì la forza che solo esse possono imprimere ai documenti e ai numeri) non mancherà di portare il lettore al superamento di ogni conformismo o sentimentalismo o strumentalismo che oggi inficiano spesso il rapporto con quel passato e la trasmissione della sua memoria.        Â